giovedì 2 giugno 2016

"PARACELSO" DI CARL GUSTAV JUNG

“Paracelso” di Carl Gustav Jung

Quell’uomo straordinario che fu Filippo Aureolo Bombast von Hohenheim, detto Teofrasto Paracelso, vide la luce in questa casa il 10 novembre 1493.
Il suo spirito medievale, e tuttavia così spregiudicato, non si adonterà se, per un cortese ossequio alle usanze del suo tempo, daremo per prima cosa un’occhiata alla posizione da cui il Sole gli inviò i suoi auspìci al momento della nascita.

Il suo Sole si trovava nel segno dello Scorpione che, secondo un’antica tradizione, favorisce i medici, coloro che amministrano veleni e farmaci. Signore dello Scorpione è Marte, orgoglioso e bellicoso, che dà ai forti il coraggio guerriero e ai deboli un carattere litigioso e bilioso.
E in effetti la vita di Paracelso non smentì questa natività. Se ora, dal cielo, passiamo a osservare la terra della sua nascita, ecco che scorgiamo la casa paterna presso Einsiedeln, chiusa in una valle incassata, solitaria e ombrosa; tutt’intorno, alte e cupe montagne serrano i passi e le valli paludose di questo malinconico eremitaggio, dove si presenta la vicinanza delle più alte vette alpine.
La potenza della terra sopraffà visibilmente la volontà dell’uomo; essa lo trattiene minacciosamente nelle sue gole e lo piega al suo volere. Qui, dove la natura è più potente dell’uomo, nessuno può sfuggirle.
Si direbbe quasi che la freschezza delle acque, l’immobilità delle rupi, la nodosità e la tenacità delle radici dei boschi, e l’asprezza dei pendii concorrano a formare nell’animo di chi nasce in questi luoghi qualche tratto che continuerà ad agire inesorabilmente per tutta la vita; questi elementi conferiscono allo svizzero quell’ostinazione, stabilità, pesantezza e orgoglio naturale che, a torto o a ragione, sono state interpretate ora come bisogno di indipendenza, ora come caparbietà. (“Lo svizzero è caratterizzato da un nobile spirito di libertà, ma anche da una certa freddezza un po’ “indisponente”, scrisse una volta un francese.)
Sembra che Paracelso abbia derivato il suo carattere più dal padre Sole e dalla madre Terra, che non dai suoi genitori carnali. Infatti, almeno per parte di padre, egli non era svizzero ma svevo; suo padre, Wilhelm Bombast, era figlio illegittimo di Georg Bombast von Hohenheim, Gran Maestro dell’ordine dei Giovanniti.
Ma per quanto riguarda il carattere, Paracelso, che era nato entro la cerchia alpina, nel grembo di una terra possente la quale, malgrado le sue origini, lo adottò come figlio, venne al mondo come svizzero, secondo la legge del “fattore della disposizione locale”. La madre era originaria di Einsiedeln; ma ignoriamo quali influssi ella poté avere sul ragazzo.

Il padre, invece, presentava una natura problematica. Era immigrato in qualità di medico ed era andato a stabilirsi in quella gola, a “casa del diavolo”, sulla via dei pellegrini. Chi lo autorizzava, lui figlio naturale, a portare il cognome nobiliare del padre?
È facile intuire la tragedia psichica del figlio illegittimo: cupo e solitario fuorilegge che, colmo di risentimento per la sua patria, si riduce a isolarsi nel folto della valle boscosa e tuttavia, con malcelata avidità, dai pellegrini di passaggio riceve notizie sul mondo esterno cui egli non farà più ritorno.
La vita nobiliare e il vasto mondo gli restano ancora nel sangue; ma vi sono anche sepolti. Non v’è nulla che abbia un influsso psichico più forte sull’ambiente circostante, e in special modo sui figli, che la vita non vissuta dei genitori.
Da un simile padre ci possiamo dunque attendere le influenze più forti, che indussero il giovane Paracelso a reagire nella maniera opposta. Al padre lo lega un grande, anzi l’unico, amore.
È il solo essere umano che egli ricorderà con affetto. Un figlio così devoto dovrà saldare i debiti lasciati aperti dal padre. Ogni rinuncia paterna si tramuterà nelle mire ambiziose del figlio.
Il risentimento e l’inevitabile senso di inferiorità del padre faranno ergere il figlio a vendicatore delle ingiustizie da quello subite. Egli impugnerà la spada contro ogni autorità, combattendo tutto ciò che si richiami alla patria potestà, e che quindi si riveli ostile a suo padre.
Dovrà riguadagnare quel che il padre ha perduto o a cui egli ha rinunciato: il successo e la rinomanza, una vita indipendente nel mondo e, per una tragica legge, dovrà anche guastarsi con i suoi amici, quale inevitabile conseguenza del legame fatale al suo unico amico, al padre, giacché dure sono le sanzioni che il destino riserva all’endogamia psichica.
Come non di rado succede, la natura lo equipaggiò malissimo per il suo compito di vendicatore; invece di conferirgli un aspetto eroico di ribelle, lo dotò di un corpo alto appena un metro e mezzo, di un aspetto malaticcio e di un labbro superiore troppo corto che lasciava scoperti i denti (un segno, questo, non di rado caratteristico delle persone nervose) e, a quanto pare, di un bacino di tipo femminile, come risultò quando, nel diciannovesimo secolo, a Salisburgo furono esumate le sue ossa [Paracelso morì a Salisburgo il 24 settembre 1941 e il suo corpo venne tumulato nel locale cimitero di St. Sebastian “tra i poveri dell’ospizio”].
Circolava anche la diceria che egli fosse un eunuco, cosa che, per quanto io ne sappia, non è stata confermata da altre testimonianze.
Tuttavia, pare che l’amore non abbia mai fatto sbocciare le sue rose nell’esistenza terrena di Paracelso, e quanto alle ben note spine, esse erano superflue per lui, dato che egli aveva già di per sé un carattere piuttosto spinoso. Non appena ebbe l’età adatta a portare armi, quell’ometto si cinse di una spada imponente, da cui non si separava quasi mai, anche perché nell’elsa bombata nascondeva le sue pillole di laudano, che costituivano il suo vero arcanum.

Armato a quel modo e con una figura che si prestava un po’ al ridicolo, egli parti assai presto per girare il mondo e intraprese viaggi avventurosi e inauditi che lo condussero attraverso la Germania, la Francia, l’Italia, i Paesi Bassi, la Danimarca, la Svezia e la Russia.
La leggenda, che ce lo rappresenta come un taumaturgo prodigioso, quasi come un secondo Apollonio di Tiana, vuole che egli abbia raggiunto anche l’Africa e l’Asia e che là abbia scoperto i più grandi segreti.
Non compì mai studi regolari, giacché ogni sottomissione a un’autorità era tabù per lui. Fu un selfmade man il quale, non a caso, scelse come proprio un motto schiettamente svizzero: “Alterius non sit, qui suus esse potest” [“Non appartenga a un altro chi può appartenere a se stesso”]
Sulle vicende occorsegli nei suoi viaggi, possiamo fare solo delle congetture; ma probabilmente si tratṭò sempre di episodi simili a quelli che gli capitarono a Basilea.
Quivi venne chiamato nel 1525, quale medico di chiara fama, dal Consiglio della città, con una di quelle risoluzioni spregiudicate che si sono succedute nel corso dei secoli, come dimostra la chiamata del giovanissimo Nietzsche.
Occasione piuttosto penosa per quella convocazione era stata l’epidemia di sifilide senza precedenti che era scoppiata in Europa a seguito della campagna militare condotta nel Napoletano.
Paracelso rivestì l’ufficio di medico della città ma, secondo l’opinione dell’università e del pubblico onorato, non fu mai all’altezza della dignità che gli era stata conferita.
Scandalizẓò infatti la prima, poiché teneva i suoi corsi nella lingua dei garzoni e delle serve, ossia in tedesco, e scandalizẓò il secondo perché si mostrava per le strade in tenuta da laboratorio, anziché con abiti confacentisi al suo ufficio.
Per i suoi colleghi era l’uomo più odiato, e dei suoi scritti di medicina venne detto tutto il male possibile.
Lo si insultava definendolo un’“incredibile testa dura” o l’“asino selvatico di Einsiedeln”, e lui rispondeva per le rime, con un linguaggio pesantemente osceno; a dire il vero, non era uno spettacolo per nulla edificante.
A Basilea fu colpito da una sciagura irreparabile, che lasciò un solco profondo nella sua vita: perse il suo amico e discepolo prediletto, l’umanista Giovanni Oporino, che lo tradì nel vero senso della parola, dando in mano ai suoi avversari le armi più terribili.

In seguito, lo stesso Oporino si pentì della sua infedeltà; ma era ormai troppo tardi, né si poté riparare al danno compiuto. Nulla avrebbe potuto mitigare il contegno litigioso, arrogante e riottoso di Paracelso che, al contrario, venne ancor più accentuato da quel tradimento.
Presto tornò a viaggiare, perlopiù povero, e spesso ridotto addirittura alla mendicità.
All’età di trentott’anni si verificò nei suoi scritti un particolare mutamento: accanto agli argomenti di medicina cominciarono a comparire anche temi filosofici.
“Filosofico” non è, del resto, un termine del tutto esatto per quella sua nuova attività spirituale.
Si dovrebbe piuttosto chiamarla “gnostica”.
Dopo che si è oltrepassata la metà della vita, infatti, si verifica quel cambiamento interiore che si potrebbe ben definire un capovolgimento dell’orientamento psichico.
Soltanto in pochi individui quel sottile mutamento appare anche chiaramente alla superficie come capovolgimento, mentre per la maggior parte delle persone esso si svolge sotto la soglia della coscienza, come del resto succede per ogni altro evento fondamentale della vita.
Negli spiriti più eletti il cambiamento assume la forma di una trasformazione dell’attività intellettuale in una specie di attività spirituale speculativa o intuitiva, come possiamo osservare ad esempio, per fare tre grandi nomi, in Newton, Swedenborg e Nietzsche.
In Paracelso il divario tra i due opposti non è così ampio, ma rimane comunque notevole. Dopo aver parlato degli aspetti esteriori e delle insufficienze della vita personale di Paracelso, veniamo dunque a trattare della sua figura spirituale, addentrandoci in un mondo di idee che all’uomo moderno deve apparire estremamente oscuro e intricato, a meno che non possegga conoscenze assai specifiche soprattutto sulla situazione spirituale del tardo Medioevo.
Occorre ricordare che, nonostante la sua stima per Lutero, Paracelso morì da buon cattolico, nel più bizzarro contrasto con la sua filosofia pagana.
Né si può ammettere che per lui il cattolicesimo fosse un semplice stile di vita. Esso era per lui un dato talmente evidente e per eccellenza estraneo alla sfera dell’intelletto che egli non ne fece mai un oggetto di riflessione; altrimenti si sarebbe posto in un pericoloso contrasto con la Chiesa e con il proprio sentimento.
Paracelso apparteneva evidentemente a quella categoria di persone che tengono l’intelletto e il sentimento in due scomparti separati, cosicché possono pensare con l’intelletto in tutta libertà, senza mai correre il pericolo di scontrarsi con la fede vissuta dal loro sentimento.
In fin dei conti le cose diventano ben più facili quando una mano non sa che cosa stia facendo l’altra.
Sarebbe del resto una vana curiosità domandarsi che cosa sarebbe avvenuto se esse si fossero incontrate, perché di solito, allora, non si incontravano.
È una caratteristica di quel tempo singolare, non meno misteriosa della mentalità di un Alessandro VI o di tutto l’alto clero del Cinquecento.
E come sotto l’egida della Chiesa rinacque il ridente paganesimo delle arti, allo stesso modo dietro le quinte della filosofia scolastica tornò a prender vita l’antico paganesimo dello spirito, in una Renaissance di neoplatonismo e di filosofia della natura.
Tra gli esponenti di quel movimento troviamo in special modo l’umanista Marsilio Ficino, il cui neoplatonismo esercitò una notevole influenza tanto su Paracelso quanto sui molti altri spiriti “moderni” e ambiziosi di quei tempi.
(Ritratto da Leonardo DaVinci) 
Nulla può meglio connotare il clima esplosivo, rivoluzionario e proteso verso l’avvenire, caratteristico di quell’epoca, che superando il protestantesimo precorre il diciannovesimo secolo, quanto il motto del libro De incertitudine et vanitate scientiarum (1527) di Agrippa di Nettesheim: Nullis hic parcit Agrippa, Contemnit, scit, nescit, flet, ridet, Irascitur, insectatur, carpit omnia, Ipse philosophus, daemon, heros, deus et omnia. [A nessuno perdona qui Agrippa, Disprezza, sa, ignora, piange, ride, S’adira, schernisce, critica ogni cosa, Filosofo, demonio, eroe, dio e tutto].
Aveva avuto inizio una nuova era, si avvicinava minaccioso il crollo dell’autorità della Chiesa cristiana, e con ciò scomparivano anche le certezze metafisiche che avevano sorretto l’uomo gotico.
E come nei paesi latini tornò a rispuntare sotto ogni forma l’antichità, così nei paesi barbarici, germanici al posto di una storia precedente, che mancava, si affermò l’esperienza primitiva dello spirito immediato, distinta in una molteplicità di forme e gradi individuali e incarnata in grandi e mirabili pensatori e poeti, quali Maestro Eckhart, Agrippa, Paracelso, Angelus Silesius e Jacob Böhme.
Essi esprimono la loro specificità barbarica, ricca però di originario vigore, con un linguaggio arbitrario e bizzarro, sviluppatosi al di fuori di qualsiasi tradizione e sfuggente ad ogni autorità.
A parte Böhme, il ribelle più irriducibile fu a questo riguardo probabilmente Paracelso.
La sua terminologia filosofica fu così personale e arbitraria da superare di molto in stravaganza e oscurità le gnostiche Parole della potenza. Il supremo principio cosmogonico, il suo “Demiurgo” gnostico era l’Yliaster o Hyaster, ibrido neologismo da hyle (materia) e astrum (astro).
Lo si potrebbe tradurre con “materia cosmica”.

(Tetraktys pitagorica ouroboruss Hermes)
È qualcosa di simile allo hen (Uno) di Pitagora ed Empedocle, o all’heiniarmene (destino) degli stoici, l’idea di una materia o forza primordiale.
La coniazione greco-latina di questo termine è semplicemente legata allo stile espressivo dell’epoca, e costituisce l’abbellimento culturale di un’idea primordiale che aveva già travagliato anche i presocratici, quantunque non sia detto che Paracelso l’abbia ereditata da loro.
Le immagini primordiali di questo tipo appartengono infatti a tutta l’umanità e possono ricomparire in forma autoctona nella mente di qualsiasi essere umano, in qualunque tempo e luogo, purché si manifestino le circostanze favorevoli per un loro risorgere.
E il momento propizio è sempre quello in cui una visione del mondo trascina con sé, nel suo crollo, quelle formule e costruzioni che fino ad allora erano valse come risposte definitive ai grandi enigmi della vita e del mondo.
Corrisponde inoltre perfettamente a una legge psicologica il fatto che tutte le divinità spodestate ricadano sull’uomo, il quale perciò esclama: “… ipse philosophus, daemon, heros, deus et omnia”; e quando incomincia a declinare una religione che esalta lo spirito, al suo posto diviene cosciente – nell’esperienza interiore – un’immagine primordiale della materia creatrice.
Nel più diretto contrasto con la visione del mondo cristiana, il supremo principio di Paracelso è un’idea strettamente materialistica.
Solo al secondo posto si colloca per lui un elemento spirituale, ossia l’anima mundi che promana dalla materia, l’Ideos o Ides, il mysterium magnum o “limbus maior, un essere spirituale, invisibile e inafferrabile”.
In esso ogni cosa è contenuta sotto forma di idee platoniche, di archetipi; un punto di vista, questo, che potrebbe derivare da Marsilio Ficino. Limbo è un cerchio.
Il mondo concepito come dotato animisticamente di vita costituisce il cerchio maggiore, l’uomo il limbus minor, ossia il cerchio minore. Egli è il microcosmo.
Perciò ogni cosa è dentro come fuori, sotto come sopra. Tra tutte le cose, sia nel cerchio maggiore che in quello minore, esiste una corrispondenza; concetto, questo, che sfocerà poi nell’idea di Swedenborg dell’homo maximus, in una gigantesca antropomorfizzazione dell’universo.
Nel concetto più primitivo di Paracelso, tuttavia, manca il fattore antropomorfico.
Tanto l’uomo quanto il mondo sono per lui degli aggregati di materia vivente; un’idea, questa, assai affine al pensiero scientifico della fine del secolo scorso, con la differenza però che Paracelso non pensa in sterili termini chimico-meccanici, bensì ancora secondo il modello animistico primitivo.
La sua natura brulica ancora di streghe, incubi, succubi, diavoli, silfidi e ondine.
Ciò che risulta animato dall’esperienza psichica è per lui, al tempo stesso, un elemento vivente della natura. La morte dell’anima, propria del materialismo scientifico, non l’ha ancora colpito, ma egli prepara la via a un simile esito.
Se consideriamo l’assetto primitivo della sua mente, egli è ancora un animista, ma al tempo stesso già un materialista.
La materia in quanto assolutamente divisibile nello spazio è la nemica più naturale di quella concentrazione del vivente che è l’anima. Il mondo delle ondine e delle silfidi avrà presto fine ed esse torneranno a celebrare la loro resurrezione soltanto nell’epoca dell’anima, allorché ci si meraviglierà di come si siano mai potute dimenticare verità tanto antiche.
Ma naturalmente è molto più semplice supporre che quanto non si comprende non esista affatto.
Il mondo di Paracelso è costituito, in grande come in piccolo, da particelle animate, da entia.
Perfino le malattie sono entia per lui, così come vi è un ens astrorum, veneni, naturale, spirituale e deale.
In una lettera all’imperatore egli spiegò la grande epidemia di peste che infuriava allora come conseguenza dell’azione di succubi generati nelle case di tolleranza.
L’ens è parimenti un “essere spirituale”, sicché egli sostiene nel suo libro Paragrano: “…le malattie non sono corpora; perciò deve impiegarsi spirito contro spirito.
Con queste parole Paracelso vuol dire che, in base alla dottrina dei corrispondentia, a ogni ens morbi corrisponderebbe un arcanum della natura, ad esempio una pianta o un minerale, costituente uno specifico per la relativa malattia.
Egli perciò non dava una definizione clinica o anatomica delle malattie, bensì le definiva in base ai loro specifici rimedi; esistevano ad esempio malattie “tartariche”, ossia quelle che venivano guarite dal loro arcanum corrispondente, nella fattispecie il tartaro.
Perciò egli tenne anche in gran conto la dottrina delle segnature che pare essere stata uno dei princìpi fondamentali della medicina popolare dell’epoca (quale era praticata dalle levatrici, dai cerusici, dalle fattucchiere, dai ciarlatani e dai boia).
Tale dottrina sostiene, ad esempio, che le piante dalle foglie palmate sono adatte a curare le malattie della mano e così via.
La malattia è per lui “una concrescenza naturale, qualche cosa di spirituale, di vivente, un germe”.
Possiamo dire che per Paracelso la malattia è una compagna vivente, un vero e proprio elemento costitutivo della vita umana, e non quell’odioso corpo estraneo che è invece per noi.
Per questo la malattia è anche imparentata con gli arcana presenti nella natura e di essa costitutivi, che le sono ugualmente indispensabili e le appartengono come le malattie all’uomo.
Il medico più all’avanguardia stringerebbe a questo punto la mano a Paracelso dicendogli: “Io non la penso esattamente così, ma neppure in maniera tanto diversa.”
Eccellente, a suo modo, è l’idea che il mondo intero sia una farmacia e Dio stesso il migliore dei farmacisti. Paracelso è uno spirito tipico di una grande epoca di transizione.
Il suo intelletto indagatore e combattivo si è liberato da una visione del mondo spiritualistica cui il suo sentimento resta ancora legato.
Extra Ecclesiam nulla salus: questo principio vale soprattutto per la trasformazione spirituale che subisce chi ha spezzato il cerchio leggendario delle sacre immagini tradizionali che limitavano il suo orizzonte quali verità ultime.
Un simile individuo perde tutti i pregiudizi su cui si fondavano la sua tranquillità e la sua salute; un mondo intero è crollato per lui; né vi è ancora coscienza di un altro ordine di cose.
Egli si sente estremamente depauperato, del tutto ignaro, come un bimbetto che ancora non sa nulla del nuovo mondo e soltanto a fatica riesce a mantenere un vago ricordo di ciò che, attraverso la voce del sangue, gli suggerisce l’esperienza primigenia dell’umanità.
Ogni autorità è decaduta per lui, ed egli deve ricostruirsi un nuovo mondo con i mezzi della sua esperienza personale. Dai suoi lunghi viaggi Paracelso attinse la propria esperienza, da impareggiabile pragmatista qual era, non disdegnando neppure le fonti più torbide.
E allo stesso modo in cui fece suo, senza pregiudizi, il materiale originario dell’esperienza esterna, così attinse anche le idee filosofiche fondamentali della sua opera dalla parte oscura primitiva della sua anima.
Riesumò un paganesimo ancestrale, sotto le vesti delle peggiori superstizioni del popolino. Lo spiritualismo cristiano si trasformò nella sua fase preistorica, nell’animismo del primitivo, e la formazione scolastica di Paracelso produsse una filosofia che non si approssimava ad alcun modello cristiano, ma piuttosto al pensiero degli gnostici, ossia dei più odiati nemici della Chiesa.
Come ogni spregiudicato innovatore che respinga autorità e tradizione, rischiò anch’egli di ritornare su posizioni un tempo ormai ripudiate e quindi di ritrovarsi a un punto morto sterile e puramente distruttivo.
E tuttavia fu impedito dal portare a pieno compimento il suo cammino a ritroso dal fatto che, mentre il suo intelletto spaziava lontano e attingeva al più remoto passato, il suo sentimento invece si teneva ben saldamente aggrappato ai valori tradizionali. E proprio in virtù di questa intollerabile contraddizione, il regresso si tramutò in progresso.
Egli non rinnegò lo spirito, a cui il suo sentimento credeva, bensì eresse accanto ad esso il principio opposto della materia: la terra di fronte al cielo, la natura di fronte allo spirito.
Per questa ragione non diventò un cieco distruttore, un genio semitruffaldino come Agrippa, bensì un padre delle scienze naturali, un pioniere del nuovo spirito, e come tale noi oggi giustamente lo onoriamo.
Tuttavia, di fronte a ciò che taluni dei suoi moderni estimatori ammirano in special modo in lui, egli scuoterebbe di certo il capo, dall’aldilà.
La sua scoperta più sofferta non fu il panpsichismo – presente in lui solo come un residuo della primitiva participation mystique con la natura – bensì la materia e le sue proprietà.
I contenuti della coscienza propri del suo tempo e il grado di sviluppo raggiunto allora dal sapere non gli consentirono di considerare l’uomo al di fuori della totalità della natura; una conquista, questa, che sarà riservata al diciannovesimo secolo.
L’indissolubile e inconscio legame dell’uomo col mondo costituiva per lui ancora un dato assolutamente evidente, contro cui il suo spirito iniziò a lottare con le armi dell’empiria scientifica.
La medicina moderna, la quale non può più intendere la psiche come un mero accessorio del corpo e inizia perciò con sempre maggiore frequenza a prendere in considerazione il “fattore psichico”, si riaccosta in un certo senso all’idea paracelsiana di una materia animata psichicamente, cosicché anche lo stesso Paracelso appare sotto una luce nuova in quanto fenomeno spirituale.
Un tempo pioniere della scienza medica, egli pare divenire oggi simbolo di un importante mutamento nella nostra concezione della malattia e della vita in genere.

Scritto da: Carl Gustav Jung

Titolo originale: Paracelsus
Conferenza tenuta nella casa natale di Paracelso, al “Ponte del Diavolo”, presso Einsiedeln (Cantone di Schwyz), nel giugno 1929, per il Club Letterario di Zurigo
Pubblicata per la prima volta in: Der Lesezirkel (Zurigo), vol. 16 (10 settembre 1929), venne quindi inclusa in: C. G. Jung, Wirk-lichkeit der Seele (Rascher, Zurigo 1934); trad. it. Realtà dell’anima (Boringhieri, Torino 1963)
Lo scritto venne poi pubblicato come volume a sé nella collana “Der Bogen”, vol. 29 (Tschudy, San Gallo 1992)
Traduzione di Paolo Santarcangeli.


Fonte:
http://www.yemaya.it/
http://www.progettoatlanticus.net

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