Ogni anima, incarnandosi, non fa che porre in atto un destino già scelto e tracciato; un destino che, in potenza, è già presente, immutabile e che la nascita dell’individuo, la sua discesa nel corpo, non fa che reificare e vivificare.
“Quando tutte le anime si scelsero la loro vita
nell’ordine che la sorte aveva stabilito, si presentavano a Lachesi;
essa assegnava a ciascuna il demone ( La parola “demone” è la traduzione di “daimon”, che si può rendere anche come “genio” )
che l’anima stessa aveva scelto perché le fosse custode durante tutta
la vita e desse adempimento al destino prescelto. Il demone anzitutto
conduceva l’anima da Cloto per ratificare, sotto la sua mano e il
vorticoso girar del fuso, il destino che aveva scelto dopo il sorteggio.
Toccato il fuso, il demone la conduceva poi alla trama che
Atropo per rendere immutabile il destino una volta filato. Di qui, senza
voltarsi, il demone e l’anima andavano sotto il trono di Ananke (Necessità) e passavano dall’altra parte”. (Platone, Repubblica, X, 620 d-e , Milano, 1990, Mursia, p. 358)
Ogni anima, incarnandosi, non fa che porre in atto un destino già
scelto e tracciato; un destino che, in potenza, è già presente,
immutabile e che la nascita dell’individuo, la sua discesa nel corpo,
non fa che reificare e vivificare. Questo è quanto asserisce il mito di
Er, fornendo una peculiare risposta ad alcune delle domande esistenziali
che da sempre tormentano gli uomini alla ricerca di una chiave segreta
per capire i significati occulti del proprio vivere. La chiave che dà
Platone è questa: dopo la morte, ogni anima è destinata a reincarnarsi,
scegliendo, in un luogo al di là dello spazio e del tempo, le
caratteristiche fondamentali di quella che sarà la propria nuova vita
terrena. E la stessa scelta della vita a venire è paradigmatica
dell’ambigua ma lineare duplicità del destino: nella scelta, infatti,
libero arbitrio e necessità si avvicinano fino a coincidere, al punto
che ognuno sceglie – liberamente – proprio la vita, quella e solo
quella, a cui era predestinato, in un gioco di Disegni concentrici in
cui causalità e teleologia si disperdono verso l’infinito di due opposti
(o convergenti?) orizzonti.
A due millenni di distanza, il mito di Er torna ad essere attuale
attraverso la rilettura che ne dà, nella sua “teoria della ghianda”, lo
psicologo e psichiatra (o meglio, anti-psichiatra) americano James
Hillman.
Hillman rifiuta le più comuni correnti della psicologia secondo cui
ognuno di noi è semplicemente il risultato di una serie di interazioni
fra i dati genetici iscritti nel DNA, l’educazione familiare e
l’ambiente sociale:
“Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane
individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette
una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo
“me”. Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile
palleggio fra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero
risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa
che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno
fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita
ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima.
La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice
genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da
comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali.
Più in profondità, tuttavia, noi siamo vittime della psicologia
accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia
terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera
soddisfacente – che è come dire ignorano – il senso della vocazione,
quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana , il
destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme,
sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna
persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è
già presente prima di poter essere vissuta”. (James Hillman, Il codice dell’anima, Milano, 1997, Adelphi, pp. 20, 21)
Secondo Hillman, non sono i cromosomi, dunque, né la famiglia, né
l’istruzione, né la società a plasmare l’individuo incanalando la sua
vita entro determinati binari: le tracce di quegli stessi binari erano
infatti già state solcate dall’anima prima dell’incarnazione,
esattamente come sosteneva Platone:
“Ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da
Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più
nota, la Repubblica. In breve, l’idea è la seguente:
Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o
disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi
quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel
venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti
vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra
immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore
del nostro destino.
Secondo Plotino (205-270 d.C.), il maggiore dei filosofi
neoplatonici, noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la
situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti, come racconta il
mito, alla sua necessità. Come a dire che la mia situazione di vita,
compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei
ripudiare, è stata scelta deliberatamente dalla mia anima, e se ora la
scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato”. (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 22, 23.)
Le apparenti casualità o necessità che caratterizzano la vita, il
destino di ognuno, quindi, non sono altro che “vocazioni”, compiti ai
quali consapevolmente abbiamo attirato noi stessi, anche se ora ne siamo
immemori. E, verso queste prove che abbiamo scelto per noi, siamo
spinti da una forza invisibile alla quale possiamo forse opporci solo
apparentemente o momentaneamente, ma mai resistere fino alla fine,
poiché è impossibile andare contro il proprio destino.
Una o più idee ricollegabili a questa intuizione platonica hanno
attraversato, spesso sotterraneamente, molte tradizioni del pensiero
occidentale, come riconosciuto dallo stesso Hillman:
“Si è cercato per secoli il termine più appropriato per questo tipo di “vocazione”, o chiamata. I latini parlano del nostro genius, i greci del nostro daimon
e i cristiani dell’angelo custode. I romantici, Keats per esempio,
dicevano che la chiamata veniva dal cuore, mentre l’occhio intuitivo di
Michelangelo vedeva un’immagine nel cuore della persona che stava
scolpendo. I neoplatonici parlavano di un corpo immaginale, ochema,
che ci trasporta come un veicolo, che è il nostro personale supporto o
sostegno. C’è chi fa riferimento alla dea Fortuna, chi a un genietto, a
un cattivo seme o genio malefico. Per gli egizi poteva essere il ka o il ba, con il quale si poteva dialogare”. (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., p. 24.)
Le concezioni della vita come realizzazione di un destino già
scritto, del destino come “scelta necessaria” dell’anima disincarnata,
dall’esistenza di forze – spesso personificate – che impongono all’anima
di seguire il proprio destino e le proprie scelte, sono tutte idee
rintracciabili anche nelle filosofie orientali, fin dai loro albori.
Nell’induismo, ad esempio, si parla di un principio spirituale denominato Jiva, che, così come in Platone, preesiste alla vita individuale fisica, ed è depositario del cammino esistenziale dell’uomo:
“In India, la credenza più diffusa sull’Io, l’individuo, è, a
prima vista paragonabile a quella espressa nei catechismi cristiani:
“l’uomo è composto di un corpo materiale e di un’anima immortale”.
Tuttavia, lo Jiva, principio vitale che sopravvive al corpo,
come lo intendono gli indiani, differisce abbastanza dall’anima e ha un
ruolo differente. Mentre l’anima, per la credenza occidentale, nasce
con l’individuo, lo Jiva molto più importante del corpo umano
precede la forma fisica e compare nel mondo con la nascita dell’essere
umano. Infatti, esiste da un periodo di tempo inconcepibile, ed ha
viaggiato, di reincarnazione in reincarnazione, fino al momento in cui è
apparso sulla terra con sembianze umane.
La natura della condizione umana che gli tocca, non è un caso
fortuito. È il risultato di una serie di cause inflessibilmente
conseguenti ai loro effetti. Queste cause sono gli atti fisici e mentali
compiuti, nel passato dai corpi degli individui che lo Jiva ha successivamente abitato.” (Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, Genova, 1982, Ecig, p. 103.)
Il principio vitale, dunque, esiste prima della vita fisica e,
proprio come una ghianda che contiene in sé in potenza la quercia,
anch’esso porta in sé il carattere e le vicissitudini che
caratterizzeranno l’esistenza terrena. Tali carattere e vicissitudini,
in India come in Platone, sono determinati da quanto l’anima ha compiuto
nella vita precedente. Non si tratta tanto di un premio o di una
punizione, quanto di una lezione. Infatti, l’anima, nel corso della vita
a venire, andrà ad imparare – per migliorarsi – ciò che nelle vite
precedenti ha dimostrato di non essere stata in grado di apprendere.
Questo aspetto migliorativo piuttosto che punitivo è il vero significato
dell’idea di karma.
La concezione del karma è sicuramente uno dei punti basilari del pensiero induista e, successivamente, buddhista:
“La legge del karma nel mondo morale corrisponde a quella
che nel mondo fisico è la legge dell’uniformità; è la legge della
conservazione dell’energia morale. Secondo il principio del karma
non c’è niente di incerto o arbitrario nel mondo morale: raccogliamo
ciò che abbiamo seminato. Il buon seme procura buoni frutti; quello
cattivo, frutti cattivi. Ogni azione, per piccola che sia, produce
effetti sul carattere. L’uomo sa che alcune tendenze all’azione che ora
esistono in lui sono il risultato di una scelta cosciente o intelligente
da parte sua. Le azioni coscienti tendono a diventare abitudini
inconsce, ed è naturale che le tendenze inconsce che troviamo in noi
stessi siano considerate l’effetto di passate azioni coscienti. Non
possiamo arrestare il processo dell’evoluzione morale più di quanto
possiamo arrestare il flusso delle maree o il corso delle stelle.
Tentare di scavalcare la legge del karma è futile quanto
tentare di saltare oltre la propria ombra. È un principio psicologico
che la nostra vita porta dentro di sé, una registrazione che il tempo
non può confondere né la morte cancellare.
L’uomo diventa virtuoso con le opere buone e malvagio con le cattive. L’uomo è una creatura dotata di volontà. Secondo quanto egli crede
in questo mondo, così sarà dopo la sua dipartita. La ricompensa
dell’azione produce il samsara (La ruota del continuo fluire di esistenza in esistenza) con nascita e morte, senza inizio e senza fine. La teoria del karma abbraccia uomini e dèi, animali e piante.
Ciò che ci lega alla catena di nascite e morti non è l’azione in
quanto tale, ma l’azione egoistica. In un epoca in cui l’individuo era
sempre pronto a sottrarsi alla responsabilità di quanto faceva
scaricandola sulla provvidenza, sulle stelle o su qualche altro essere,
la dottrina del karma affermò che l’uomo si incatena da se stesso. Ciò che incombe su di noi non è un oscuro destino, ma il nostro passato”. (Radhakrishnan, La filosofia indiana, Roma, 1993, Asram Vidya, Volume primo, pp. 224, 225.)
L’uomo dunque è il frutto del seme del karma: il pensiero
indiano, nella stessa terminologia, è qui avvicinato dalla teoria della
ghianda di Hillman, secondo cui ogni vita è il germoglio di un seme che è
presente prima della vita.
Non dissimile è, in proposito, il pensiero buddhista, secondo cui l’illusorio sé dell’uomo è composto dai cosiddetti cinque skandha o gruppi di attaccamento, ma anche da qualcosa di ineffabile trascendente rispetto ad essi:
“Il Buddha chiama il corpo, la sensazione, la percezione, le attività
della mente e la coscienza, che possiamo afferrare come la totalità di
tutto [l’insieme psicofisico che costituisce l’individualità umana], i
cinque gruppi di attaccamento. Il processo della nascita consiste
appunto nell’interazione, ossia nel divenire di questi cinque gruppi con il corpo, quale loro base”. (Georg Grimm, Gli insegnamenti del Buddha, Roma, 1994, Edizioni Mediterranee, p. 186.)
“Se siamo costituiti dai cinque gruppi, se la nostra essenza consiste
in essi, dovrebbero allora essere per noi la cosa più familiare e
naturale del mondo. Essi non sarebbero nient’altro che noi stessi, il
nostro io, e quindi assolutamente riconoscibili e definibili. Ma
consideriamo con quanta curiosità non solo il bambino, ma anche l’adulto
tratta e osserva il proprio corpo nella sua vita, se ne stupisce come
fosse un enigma, un mistero, si comporta esattamente come se si fosse
imbattuto improvvisamente in qualcosa di assolutamente strano con cui
non ha avuto prima d’allora niente a che fare. L’uomo riflessivo s’interroga sulle sue facoltà sensoriali, sulle proprie sensazioni,
sui propri stati d’animo e pensieri: “Com’è possibile che io possieda
tutte queste cose? Devo averle realmente?”. Una domanda che sarebbe
pressoché impossibile, se egli non fosse altro che questi stessi
processi. Tuttavia tale stupore esiste, e non soltanto il semplice
stupore della coscienza di se stessa, bensì lo stupore di chi si
meraviglia degli altri quattro gruppi in cui è compreso e, soprattutto,
della stessa coscienza, dietro cui deve stare. Si tratta del
grande stupore di come ho avuto “questo corpo dotato di sensorialità e
coscienza” o, per esprimersi in parole povere, come sono arrivato a
questo mondo. È il grande stupore che costituisce la fonte principale di
ogni religione e di ogni filosofia.
Si noti come questo sentimento fondamentale dell’umanità si rifletta
anche nella lingua, che esprime più direttamente la percezione
immediata: “vengo al mondo”, “lascio il mondo”, “mi piace la vita”,
“sono attaccato alla vita”, “mi tolgo la vita”. In queste espressioni si
può notare che la vita non è nient’altro che i cinque gruppi in azione.
Come potrei essere attaccato alla vita e, soprattutto, togliermi la
vita, se non fossi io stesso vita, se non consistessi cioè nei
cinque gruppi? Soprattutto togliersi la vita sarebbe in questo caso
impossibile, così come sarebbe impossibile per la mano staccarsi dal
braccio. Ma come potrei sopprimere il mio vero sé, ciò in cui di
fatto consisto, sia quel che sia, dal momento che esso costituisce la
mia essenza, per essere ciò che sono? Posso soltanto gettare via o sopprimere ciò di cui non consisto e che mi è, dunque, estraneo.
Questo pensiero, a ben considerare, basterebbe a far comprendere che io
sono qualcosa che sta dietro la vita, dietro i cinque gruppi, qualcosa
che si attacca e aderisce alla vita e ai cinque gruppi che costituiscono la personalità, come a qualcosa di estraneo che considero desiderabile”. (Georg Grimm, Gli insegnamenti del Buddha, op. cit., pp. 133, 134.)
L’esistenza fisica è perciò, nel buddhismo, qualcosa a cui il
principio spirituale (un sé, peraltro, privo di reale sostanza),
aderisce perché spinto dal desiderio, dalla necessità, dalla legge del karma.
La vita, in oriente come in Platone come in Hillman, è dunque destino
che l’anima si autoimpone, scelta consapevole ed ineluttabile che
l’essenza spirituale individuale compie, spinta dalla necessità e dal
desiderio di migliorarsi, fino a ritornare all’Unità della Potenza
primigenia originaria che l’ha posto in essere.
Così come il karma è una necessità e al tempo stesso una
pulsione che porta l’anima individuale a reincarnarsi in un certo modo
per diventare migliore, così, in Platone e Hillman, il daimon è ciò che sta alla base del proprio progetto di vita e consente di visionarlo e sceglierlo.
Il daimon è dunque Destino, scelta di vita.
Questo, almeno, è uno dei due significati fondamentali del daimon.
L’altro significato, come vedremo, è riconducibile all’esistenza di
quella forza sottile, impalpabile ma ineludibile, che spinge l’uomo alla
realizzazione del suo Destino e delle sue scelte: una forza che in
diverse culture è stata ipostatizzata e dipinta con un carattere
angelico o demoniaco.
Nei suoi scritti, infatti, Hillman usa “in maniera pressochè intercambiabile molti dei termini che designano
la nostra ghianda – immagine, carattere, fato, genio, vocazione, daimon, anima, destino”. (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., p. 25.)
Daimon come Destino, dunque: questo è il significato primo di quella ghianda da cui ognuno di noi dipana la propria esistenza. Un destino che ognuno serba nell’animo prima di nascere.
“Ciascuna vita è formata dalla propria immagine, unica e
irripetibile, un’immagine che è l’essenza di quella vita e che la chiama
a un destino. In quanto forza del fato, l’immagine ci fa da nostro
genio personale, da compagno e da guida memore della nostra vocazione.
Il daimon svolge la sua funzione di “promemoria” in molti
modi. Ci motiva. Ci protegge. Inventa e insiste con ostinata fedeltà. Si
oppone alla ragionevolezza facile ai compromessi e spesso obbliga il
suo padrone alla devianza e alla bizzarria, specialmente quando si sente
trascurato o contrastato. Offre conforto e può attirarci nel suo
guscio, ma non sopporta l’innocenza. Può far ammalare il corpo. È
incapace di adattarsi al tempo, nel flusso della vita trova errori,
salti e nodi – ed è lì che preferisce stare. Possiede affinità con il
mito, giacché lui stesso è un essere del mito e pensa in forma mitica.
Il daimon è dotato di prescienza – non dei particolari,
forse, perché non ha il potere di manipolare gli eventi per
conformarli all’immagine e adempiere la vocazione. La sua prescienza,
dunque, non è perfetta ma limitata, riguarda piuttosto il senso generale
della vita in cui si incarna. Inoltre, il daimon è immortale, nel senso che non ci lascia mai e non può essere liquidato dalle spiegazioni di noi mortali.
C’entra molto con i sentimenti di unicità, di grandezza, e con
l’inquietudine del cuore, con la sua impazienza, la sua insoddisfazione,
i suoi struggimenti. Ha bisogno della sua parte di bellezza. Vuole
essere visto, ricevere testimonianza, riconoscimento, soprattutto dal
suo padrone. È lento ad ancorarsi e svelto a volare. Poiché non può
dimenticare la sua vocazione divina, si sente insieme esule sulla terra e
partecipe dell’armonia del cosmo. Le immagini e le metafore sono la sua
lingua madre, innata, la stessa che costituisce la base poetica della
mente e rende possibile la comunicazione con tutti gli uomini e tutte le
cose”. (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 60, 61.)
Il destino che il daimon racchiude è una scelta a cui l’anima tende per migliorarsi, esattamente come avviene secondo la dottrina del karma. Lo stesso Platone, nel mito di Er, parla infatti esplicitamente di metempsicosi:
“Le anime, che provengono da vite precedenti e soggiornano in una
sorta di aldilà, hanno ciascuna un destino da compiere, una parte
assegnata (moira), che corrisponde in un certo senso al
carattere di quell’anima. Per esempio, racconta il mito, l’anima di
Aiace Telamonio, il valoroso e irruente guerriero, scelse la vita di un
leone, mentre quella di Atalanta, la vergine famosa per la velocità
nella corsa, scelse il destino di un atleta e un’altra anima quella di
un nobile artigiano. L’anima di Ulisse, memore delle prove e dei
travagli patiti, “e guarita di ogni ambizione, andò a lungo in giro alla
ricerca di una vita di uomo solitario senza occupazione, e la trovò a
stento, gettata in un canto e negletta dagli altri.
“Quando tutte le anime si erano scelte la vita, secondo che era loro toccato, si presentavano davanti a Lachesi [lachos, “parte, porzione di destino”]. A ciascuna ella dava come compagno il genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto”. Il daimon conduce l’anima dalla seconda delle personificazioni del destino, Cloto [klotho, “filare, volgere il fuso”]. “Sotto la sua mano e il volgere del suo fuso, il destino [moira] prescelto è ratificato”. (Gli viene impresso il suo particolare effetto?). “quindi il genio [daimon] conduceva l’anima alla filatura di Atropo [atropos, “che non si può volgere all’indietro, irreversibile”], per rendere irreversibile la trama del suo destino.
“Di lì, senza voltarsi, l’anima passava ai piedi del trono di Necessità” (Ananke), o, come traducono alcuni, “del grembo” di Necessità.
Dal testo non risulta chiaro in che cosa consista esattamente il kleros lasciato cadere ai piedi delle anime affinché ciascuna scelga il proprio. Il termine kleros può avere tre significati strettamente connessi: a) pezzo di terra, come il nostro lotto di terreno e, per estensione, b) lo spazio, la parte assegnata nell’ordine generale delle cose e c) eredità, ciò che per diritto ci viene in quanto eredi.
Io interpreto i kleroi del mito come immagini. Poiché
ciascuno di essi è particolare e compendia lo stile di tutto un destino,
l’anima percepirà intuitivamente un’immagine che abbraccia l’insieme di
una vita tutto in una volta. E sceglierà l’immagine che la attrae:
“Ecco quella che voglio, che è la mia giusta eredità”. La mia anima
sceglie l’immagine che io vivo.
Il testo platonico chiama questa immagine della vita paradeigma,
“modello”, come viene di solito tradotto. Dunque quella che ricevo è
l’immagine che è la mia eredità, la porzione assegnatami nell’ordine del
mondo, il mio posto sulla terra, condensata in un modello che è stato
scelto dalla mia anima, perché nelle equazioni del mito il tempo non
entra.
Per dipanare quell’immagine occorre tutta la vita. Se pure è
percepita tutta in una volta, la si comprende solo lentamente. Sicché
l’anima possiede un’immagine del proprio destino, che il tempo può
rendere manifesta soltanto come “futuro”. Che “futuro” sia dunque un
altro nome per indicare il destino, e le nostre preoccupazioni circa “il
futuro” fantasie del destino?
Plotino, il più grande dei filosofi del neoplatonismo, così
sintetizza il mito platonico: “Il fatto di venire al mondo, di entrare
in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e nel tal
luogo, e in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della
nostra vita¼ tutti gli eventi formano una unità e sono per così dire
intessuti assieme”. Ciascuna anima è guidata dal daimon a quel
particolare corpo e luogo, a quei dati genitori e condizioni di vita,
per la forza di Necessità; ma noi non abbiamo il minimo sentore di tutto
questo, perché il suo ricordo è stato cancellato nella pianura
dell’oblio”. (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 67-69.)
Non solo in Platone e poi Hillman, ma in tutta l’Asia si può
ritrovare una filosofia secondo cui il Destino – sia quello individuale,
microcosmico, sia quello universale, macrocosmico – è l’espressione di
una storia già scritta, delineata, mossa da principi di armonia
tutt’altro che casuali. D’altronde, se esiste un destino, un disegno per
il singolo, è solo perché esiste un Destino, un Disegno per il Tutto:
l’eredità, la porzione di destino dell’individuo rappresenta la sua
parte nel grande ordine dell’Universo. Il Tutto e il particolare – i
singoli individui – si muovono all’insegna di un’armonia sincronica.
Questo, il pensiero cinese l’aveva già intuito oltre 3.000 anni fa, come
aveva sottolineato Carl Gustav Jung nella sua introduzione all’ I King,
il millenario e oracolare “Libro dei Mutamenti”:
“La nostra scienza è basata sulla causalità, e quest’ultima è
considerata verità assiomatica. La mentalità cinese, quale io la
vedo all’opera nell’I King, sembra invece preoccuparsi dell’aspetto
accidentale degli eventi. Ciò che noi chiamiamo coincidenza sembra
essere la cosa della quale questa peculiare mentalità principalmente si
interessa, e ciò che noi adoriamo come causalità passa quasi inosservato. Il modo con cui l’I King è incline a considerare la realtà sembra
non vedere di buon occhio i nostri procedimenti causalistici.
L’oggetto che interessa sembra essere la configurazione che gli eventi
accidentali formano al momento dell’osservazione, e nulla affatto le
ragioni ipotetiche che apparentemente rendono conto della coincidenza.
Mentre la mentalità occidentale accuratamente separa, pesa, sceglie,
classifica, isola, ecc., l’immagine cinese del momento contiene ogni
particolare fino al più minuto assurdo dettaglio, perché l’istante
osservato è il totale di tutti gli ingredienti. Accade così che quando
succede che si gettino le monete (Il lancio delle monete è alla base della funzione oracolare dell’I King.)
o si contino i 49 steli di millefoglie, questi dettagli causali entrano
nel quadro dell’istante d’osservazione formandone una parte –
insignificante per noi eppure colma di significato per la mentalità
cinese. Da noi dire che qualunque cosa avvenga in questo momento
possiede inevitabilmente la qualità peculiare per quest’ultimo sarebbe
un’affermazione banale e quasi senza senso. Questo non è un
argomento astratto, anzi è un argomento assai pratico: vi sono certi
esperti che dall’aspetto, gusto e comportamento di un vino, sapranno
dire il sito della sua vigna ed il suo anno di origine; vi sono degli
antiquari che sapranno informarci dell’epoca, della provenienza e
dell’artefice di certi oggetti d’arte o di un pezzo di mobilio con
un’accuratezza impressionante. Considerando simili fatti bisogna
ammettere che degli istanti possono lasciare delle tracce di lunga
durata.
In altre parole: chiunque sia stato l’inventore dell’I King, era convinto che l’esagramma (Gli esagrammi sono le figure ottenute con il lancio
delle monete, e si ottengono attribuendo un simbolo grafico (una linea
unita o una spezzata) a ciascuna delle due facce della moneta)
costruito in un dato momento coincideva con questo anche nella qualità e
non soltanto nel tempo. Per lui l’esagramma era l’esponente del momento
in cui lo si otteneva, più ancora anzi del misuramento del tempo, in
quanto lo si comprendeva come un indicatore della situazione essenziale
prevalente al momento della sua origine. Questa assunzione implica un
certo strano principio che io ho denominato sincronicità, concetto che formula un punto di vista diametralmente opposto alla causalità. La sincronicità considera
la coincidenza degli eventi in spazio e tempo come significatore di
qualche cosa di più d’un mero caso, cioè di una peculiare
interdipendenza di eventi oggettivi tra di loro, come pure fra essi e le
condizioni soggettive (psichiche) dell’osservatore o degli osservatori.
La mentalità cinese contempla l’universo in una maniera paragonabile a
quella del fisico moderno, il quale non può negare che il suo modello
dell’universo è una struttura decisamente psicofisica”. (Carl Gustav Jung, Prefazione alla traduzione inglese dell’I King, contenuto in I King, Roma, 1950, Astrolabio, pp. 12-14.)
Il Tutto e il singolo, come si diceva, agiscono in sincronia. Il destino dell’uomo dipende dal destino dell’Universo:
“La vitalità, le complessioni, le sorti sono diverse fra gli uomini. L’uomo (come gli altri esseri) è costituito dal sing (Complessione, temperamento, essenza) del Cielo e della Terra; dalla Terra egli deriva il suo sangue, e i
suoi umori fecondi e nutritivi, come le linfe; deriva dal Cielo il suo
soffio caldo e sottile; da ambedue il ritmo – battito del polso
e respirazione – che mantiene o piuttosto costituisce in lui la vita.
Ma è il Cielo (onorato come un padre, provvisto di autorità, lodato per
la sua permanenza e la sua unità) che distribuisce le sorti, i ranghi, i
periodi di vita, i destini”. (Marcel Granet, Il pensiero cinese, Milano, 1971, Adelphi, p. 304.)
Il cielo – come la moira, come il karma –
attribuisce dunque i destini degli uomini, dando a ciascuno la parte di
disegno che serve a contribuire allo svolgimento del Disegno più grande.
La strada dell’individuo segue la strada del Tutto. La via del primo
dipende dalla via del secondo. Così si afferma anche nel Tao Te Ching, il Libro della via e della virtù.
“Infatti gli esseri fioriscono e (poi) ognuno torna alla propria
radice. Tornare alla propria radice si chiama la tranquillità: ciò vuol
dire deporre il proprio compito. Deporre il proprio compito è una legge
costante. Colui che conosce questa legge costante si chiama illuminato.
Colui che non conosce questa legge costante agisce da stolto e attira su
di sé la disgrazia. Colui che conosce questa legge costante è
tollerante; essendo tollerante è senza pregiudizi; essendo senza
pregiudizi, è comprensivo; essendo comprensivo è grande; essendo grande è
(identico a) la Via”. (Tao Te Ching, Milano, 1973, Adelphi, p. 57.)
Quando un nobile medio sente parlare della Via, talvolta la conserva, talvolta la perde.
Quando un nobile inferiore sente parlare della Via, ci fa grandi risate.
Se non se ne ridesse, la Via non meriterebbe di essere considerata tale.
Poiché l’adagio dice:
“La Via chiara è come oscura.
La Via progressiva è come retrograda.
La via unita è come ruvida.
La virtù somma è come una valle.
Il bianco più immacolato è come contaminato.
La virtù più larga è come insufficiente.
La virtù più forte è come impotente.
La realtà più solida è come tarlata.
Il più grande quadrato non ha angoli.
Il più grande vaso è l’ultimo ad essere finito.
La più grande musica ha il suono più sottile.
La più grande immagine non ha forma.
La Via è nascosta e non ha nomi (di categorie).
Difatti, proprio perché sa prestare, la Via sa portare tutto a compimento””. (Tao Te Ching, op. cit., p.105.)
Questa grande Via che sa prestare a ognuno la sua piccola Via, il suo
destino individuale, porta tutto a compimento. Dando a ogni individuo
il suo compito, che andrà svolto fino al momento di deporlo, la Via lo
rende grande come lei. La realizzazione della Grande Via e della Piccola
Via coincidono. Il Destino dell’Universo e quello del singolo
coincidono.
Come avvenga poi la distribuzione dei destini, dei compiti, delle
piccole Vie, ce lo dice invece il pensiero indiano. Alla base di tale
distribuzione, come abbiamo già visto, c’è la nozione di karma, la legge universale che sta alla base di ogni nascita e rinascita e che opera secondo criteri tutt’altro che accidentali:
“La legge del karma non è nient’altro che la legge di causalità
non soltanto nel suo significato formale, come legge di causa ed
effetto, ma anche nel suo significato concreto, in base a cui un determinato
effetto segue sempre una determinata causa. Soltanto che essa è priva
di ogni limite del mondo fisico e si estende anche ai regni dominati
dalla morale e, dunque, oltre la morte”. (Georg Grimm, Gli insegnamenti del Buddha, op. cit., p. 203.)
Come si applichi all’uomo e al suo destino questa legge di causa ed
effetto ce lo narra, in forma mitica, un’antica credenza indiana con
moltissime, evidenti analogie al mito platonico di Er:
“Quando l’uomo è in punto di morte, ha l’improvvisa visione
dell’Unità Suprema. Poi il soffio vitale fugge via dal suo corpo e
gli inviati del Re della morte (Yama) estraggono il suo Jiva dal corpo.
Gli inviati hanno aspetti terrificanti, sono armati di mazze e lacci.
Indirizzando terribili minacce contro di lui, portano via con sé lo
Jiva lungo la via che conduce al regno di Yama.
Lo Jiva è affamato, tormentato dalla sete, minacciato da bestie
feroci, malmenato da coloro che lo trascinano ed è impietosamente
costretto ad andare lungo una strada fatta, di volta in volta, di
vertiginose dicese o di ripidissime salite.
Durante questo viaggio, lo Jiva soffre ancora caldo e freddo.
Egli si ricorda delle cattive azioni che ha compiuto, e si affligge per
i risultati dolorosi, per lui, che queste gli hanno procurato. Cerca
invano, attorno a sé, un protettore che gli venga in aiuto, ma non ne
trova.
Sei mesi dopo, arriva sulle sponde di un fiume. Una barca è
ancorata alla riva, ma prima che gli sia concesso di prendervi posto,
per poter attraversare il fiume, egli deve esibire le prove delle buone
azioni che ha compiuto. Non riuscendo a darle, è gettato in acqua,
arpionato e trascinato come un pesce lungo il fiume, fino alla città di
Yama.
La città di Yama ha quattro porte, attraverso le quali
rispettivamente, entrano coloro che sono stati caritatevoli, i saggi, i
valorosi. Attraverso la porta a sud entrano i peccatori.
Il Re dei Morti è seduto sul suo trono, circondato da saggi, da
sapienti e da buoni. Tutto è Verità e Giustizia attorno a lui. La
menzogna, l’ingiustizia e i sentimenti malevoli non hanno accesso alla
sua Città.
Il ministro de re, Chitagupta, ha una Corte personale e degli
assistenti che annotano le opere compiute da ogni uomo in pensieri,
parole, azioni.
Viene fatta la lettura delle pagine del registro riguardante colui
che compare in giudizio. In seguito è pronunciata una sentenza. L’uomo
che si è comportato male in vita, è condannato a soffrire nei mondi
infernali per periodi di tempo, a volte, incredibilmente lunghi, prima
di reincarnarsi di nuovo in persona umana dopo essere, magari, passato,
attraverso una serie di reincarnazioni riguardanti vari ordini di esseri
animali”. (Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., pp. 113, 114.)
Se il mito di Er, così come l’interpretazione buddhista della legge del karma,
sottolineano l’importanza della scelta compiuta dall’individuo – o
almeno dell’attrazione da lui sentita – per il proprio futuro destino,
questo mito indiano rimarca invece il carattere di necessità con cui si
viene vincolati alla vita che si andrà a vivere. Scelta e necessità,
come abbiamo visto, vengono in realtà paradossalmente a coincidere,
poiché non si può sfuggire al Destino Ultimo, che coincide con l’azione
volontaria dell’Uno. Ciò non toglie che anche Hillman rilevi come,
talvolta, l’aspetto di scelta volontaristica appaia subordinato
all’elemento apparentemente coercitivo che sta alla base di una nuova
incarnazione. A tal proposito, l’antipsichiatra americano cita la
Qabbala:
“Lo Zohar, il testo canonico della letteratura qabbalistica,
dice chiaramente che la discesa è dura; l’anima è restia a discendere e
a contaminarsi col mondo.
“Al tempo in cui il Santo, sia benedetto il suo nome, era in procinto
di creare il mondo, decise di foggiare tutte le anime da assegnare, a
tempo debito, ai figli degli uomini, e ciascuna anima era formata
secondo i contorni esatti del corpo che era destinata ad abitare ¼ Ecco,
ora va’, scendi nel tale luogo, entra nel tale corpo.
“Ma il più delle volte l’anima obiettava: Signore del mondo, a me
piace restare qui in questo regno, e non ho alcun desiderio di andarmene
in un altro, dove sarò schiava e verrò contaminata.
“Al che il Santo, sia benedetto il suo nome, rispondeva: Il tuo
destino è, ed è sempre stato fin dal giorno in cui fosti formata, quello
di andare in quel mondo.
“Allora l’anima, vedendo che non poteva disubbidire, suo malgrado scendeva in questo mondo””. (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp.65, 66.)
La costrizione è però solo qualcosa di apparente, di ancora legato a
ciò che il buddhismo definisce “l’illusione del sé”, l’erronea credenza
di possedere un’individualità separata. Non c’è nessun essere o
principio esterno che obbliga l’anima ad incarnarsi: è lei stessa ad
incamminarsi sulla via che la conduce alla vita terrena, spinta dalle
proprie pulsioni interiori. La differenza sta nel fatto che di tali
pulsioni l’anima può essere consapevole, oppure che esse possono
agitarlesi dentro in modo inconscio. Quando l’anima è conscia delle
proprie pulsioni, l’incarnazione appare come un atto volontario; quando
non ne è consapevole, la nuova vita sembra qualcosa di imposto. Il
pensiero buddhista è estremamente chiaro in proposito:
“Come avviene che una creatura morente provi attaccamento per l’ovulo
di una donna, un’altra per l’ovulo di un grembo d’animale, un’altra per
l’inferno o il paradiso? O più brevemente: da cosa viene determinata la
diversa direzione dell’attaccamento alla morte di un essere? La
risposta è: dallo stesso fattore che rappresenta, in genere, la causa
dell’attaccamento, ossia la sete (¼). Il tipo particolare di sete o, in
altre parole, la direzione principale assunta dalla volontà di un essere
morente determina non soltanto lo stesso attaccamento, ma anche la sua
direzione”. (Georg Grimm, Gli insegnamenti del Buddha, op. cit., p.191.)
Identico è il concetto che emerge dal credo tibetano, in particolare dal Libro tibetano dei morti. Qui si narra il cammino dell’anima nel Bar-do, ossia nel periodo compreso tra una morte fisica e la successiva rinascita:
“Se le tue inclinazioni tendenti al Bene ti ci spingono
irresistibilmente, seguirai questa via di pallidi chiarori e assaporerai
per un po' il riposo a cui porterà.
Se hai nutrito sentimenti di gelosia, di violenta ambizione, se i tuoi ultimi pensieri ti hanno fatto entrare nel Bar-do con un corpo sottile impregnato di influssi combattivi, sarai tentato di dirigerti su una via fatta di luce verde.
Resisti al tuo impulso, il raggio verde conduce al mondo dei Lha-ma-yin. Eternamente in guerra con i Lha,
essi si sforzano invano di superare lo spazio che li separa dal mondo
della quiete e della fedeltà. Vinti continuamente, continuamente
rinnovano i loro sforzi con una fatica infinita. Se puoi, distoglitene”. (Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., pp. 56, 57.)
L’anima, secondo il Libro tibetano dei morti, può scegliere
una rinascita in almeno sei mondi diversi. Tutti questi mondi sono
illusori, allo stesso modo in cui è illusoria l’idea di un principio
esterno che costringa ad incarnarsi:
“Nessun potere supremo regola la reincarnazione dello jiva-namshe (Il principio consapevole, legato al corpo, da cui si distacca con la morte fisica).
Esso è diretto automaticamente verso il nuovo corpo che dovrà abitare.
Questo nuovo corpo non gli è estraneo, come il vestito acquistato in un
negozio è estraneo a colui che lo indosserà. È il namshe che ha
egli stesso, nel corso della sua unione con il corpo materiale, tessuto e
confezionato il vestito che si appresta a riceverlo.
Questo processo di “confezione” è continuo. Di volta in volta, il namshe
sarto effettua ritocchi all’opera fatta precedentemente. Ne modifica
l’aspetto, aggiungendo differenti parti di tessuto, o ricoprendone altre
di guarnizioni.
Così l’incessante attività del corpo, della parola e dello spirito confezionano il destino dell’individuo nella sua esistenza,
continuando a farlo di reincarnazione in reincarnazione, attraverso la
successione delle morti e delle rinascite.
Soltanto gli ignoranti parlano di punizioni e ricompense. Non c’è che
la legge inesorabile, superiore e razionale delle cause e degli effetti
“dell’atto e dei suoi frutti”, dicono i Tibetani”. (Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., pp. 56, 57.)
Sempre secondo il buddhismo tibetano, dopo la morte,
“Quando la visione della chiara luce è terminata, un individuo
ordinario viene involontariamente spinto dai radicati impulsi mentali in
un altro stato di ‘divenire’. I tibetani credono che non possa
controllare il luogo e la qualità della sua prossima esistenza, dato che
egli non ha nessun controllo sulle tendenze della propria mente, quindi
viene sballottato da un’esistenza all’altra, condizionato dai suoi
desideri e avversioni.
Tuttavia, l’essere che ha un completo controllo sulla propria mente
ha la capacità di dirigere la propria coscienza verso qualsiasi forma
desideri. Se lo vuole, potrebbe rimanere in un ‘reame puro’, dove
sperimentare di continuo una beatitudine indescrivibile, oppure, da vero
bodhisattva che ode i lamenti degli altri, ritornare volontariamente e
più volte per aiutarli”. (Vicki Mackenzie, Reincarnazione, Pomaia (Pisa), 1992, Chiara Luce Edizioni, p.89.)
Il segreto per non farsi travolgere dagli impulsi inconsci che
inducono verso reincarnazioni apparentemente indesiderabili, è quello di
controllare la mente, di sedare l’attaccamento verso le cose materiali:
“Per avere una cattiva rinascita è necessario che al momento della
morte nella mente si sviluppi l’attaccamento, la confusione e la poca
lucidità mentale, per cui se questi stati non si verificano, la colla
dell’attaccamento non fa effetto e anche se si possiede una grande
quantità di energia negativa che ci spinge a rinascere in un reame
inferiore sperimentando incredibili tormenti, possiamo salvarci e
dire arrivederci alle negatività, anche se queste sono numerose come il
Monte Meru”. (Lama Yesce, L’arte buddhista di saper morire, Pomaia (Pisa), 1992, Chiara Luce Edizioni, p.44.)
L’acquisizione della consapevolezza e del controllo mentale può anche ridurre gli effetti del karma:
“Il viaggiatore disincarnato è, come noi, sottoposto agli influssi
delle sostanze materiali e mentali di cui momentaneamente è composta la
sua essenza. Come noi egli reagisce attraverso i suoi istinti, o varie
abitudini che regolano il suo comportamento.
Tuttavia, gli insegnamenti enunciati nel Bar-do Thödol (Il Libro tibetano dei morti) sembrano ben sottolineare che questo comportamento non è sottoposto a
un rigido fatalismo. Alcune trasposizioni o combinazioni possono
effettuarsi nell’insieme di “elementali” che costituiscono il
viaggiatore, e dare la prevalenza a quelli di loro che sceglieranno per
lui una favorevole decisione.
Questa scelta si farà, come facciamo le nostre, sotto la direzione dello stato d’animo momentaneo dell’individuo”. (Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 63)
Che ce ne rendiamo conto o no, ci scegliamo tutta la nostra vita
prima ancora di nascere. Ci scegliamo il luogo in cui nascere, le
avventure da vivere, i genitori da cui venire concepiti.
Se, nelle vite precedenti, abbiamo coltivato la consapevolezza e
il controllo mentale, siamo consci che la scelta è stata effettuata da
noi stessi. Ecco che, secondo il buddhismo,
“Si dice che quando un essere ha ottenuto un elevato livello di sviluppo, lui o lei possa stabilire le precise condizioni della sua prossima rinascita, scegliendo quella che meglio si adatta al suo scopo”. (Vicki Mackenzie, Reincarnazione, op. cit., p. 82.)
Altrimenti, saremo sballottati dagli impulsi inconsci e dal desiderio. Così, nel bar-do,
“La memoria delle sensazioni carnali a cui ti sei abbandonato nel
corso della vita che hai lasciato ti pungola questo corpo di materia
sottile che ora ti ritrovi.
Davanti a te, attorno a te, uomini e animali si accoppiano, tu li desideri, ti attirano.
Se l’effetto delle tue inclinazioni ti destina a nascere come maschio
proverai una forte avversione per i maschi che vedrai. Se il tuo
destino ti fa nascere femmina, proverai una forte avversione per le
femmine che vedrai. Non avvicinarti alle coppie che vedi, non cercare di
metterti tra loro, per prendere il posto di uno di essi.
Svaniresti nella sensazione che sentiresti e saresti concepito come
un essere umano o come un essere dell’una o dell’altra specie animale”. (Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 60.)
Quando anche, tuttavia, la scelta pare una mera casualità, effettuata
sulla base di impulsi incontrollabili, c’è una logica dietro di essa.
Tale scelta è stata effettuata dal nostro karma, dalla nostra anima superiore, dal nostro destino, dal nostro daimon.
Spiega Hillman:
“Se esiste nella nostra civiltà una fantasia radicata e incrollabile,
è quella secondo la quale ciascuno di noi è figlio dei propri genitori e
il comportamento di nostra madre e di nostro padre è lo strumento primo
del nostro destino. Così come abbiamo i loro cromosomi, allo stesso
modo i loro grovigli e i loro atteggiamenti sono gli stessi nostri. La
loro psiche inconscia – le collere rimosse, i desideri irrealizzati –
conforma congiuntamente la nostra anima e noi non riusciremo mai e poi
mai a venire a capo di questo determinismo e a liberarcene. L’anima
individuale continua a essere immaginata biologicamente come un frutto
dell’albero genealogico. La nostra psiche nasce da quella dei nostri
genitori, così come la nostra carne nasce dai loro corpi.
Da qualche parte, tuttavia, un folletto continua a sussurrare
un’altra storia: “Tu sei diverso; non assomigli a nessuno della
famiglia; tu non sei dei loro”. Nel cuore si annida un eretico, che
chiama la famiglia una fantasia, una superstizione.
Del resto, il modello biologico stesso presenta smagliature che
lasciano perplessi. Sappiamo spiegare più facilmente la
contraccezione che non la concezione. Che cosa avviene in realtà in quel
compatto, conchiuso ovulo, che permette a quell’unico particolare
spermatozoo, tra milioni, di penetrare? Ma forse sarebbe più giusto
chiederlo allo spermatozoo: ce n’è uno tra voi che è più furbo, più
intraprendente degli altri o forse più congeniale, che sente una
maggiore affinità? O è un caso, una questione di “fortuna”¼ ma poi, che
cosa si intende per fortuna? Sappiamo molte cose sul DNA e sui risultati
della congiunzione, ma rimane intatto il mistero sul quale Darwin spese
la vita, il mistero della selezione.
La teoria della ghianda propone una soluzione antica: è stato il mio daimon
a scegliere sia l’ovulo sia lo spermatozoo, così come aveva scelto i
portatori, detti “genitori”. La loro unione deriva dalla mia necessità,
non il contrario. Questo non aiuta forse a spiegare le unioni
impossibili, le incompatibilità, i veloci concepimenti e i bruschi
abbandoni che si verificano tra genitori di molti di noi, e in
particolare nelle biografie delle persone eminenti? Lui e lei si sono
messi insieme non per unirsi ma per concepire quella persona unica e
irripetibile, dotata di una particolare ghianda, che poi sono risultato
essere io”. (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 89, 90.)
Consapevole o meno, la scelta della vita in cui incarnarsi, una volta
compiuta è irreversibile. E, per cominciare a vivere, come sottolineava
Platone, è comunque necessario dimenticarsi di avere scelto:
“Prima di fare il loro ingresso nella vita umana le anime
attraversano la pianura del Lete (oblio, dimenticanza), sicché al loro
arrivo sulla terra tutto ciò che è accaduto – la scelta delle vite e la
discesa dal grembo di Necessità – viene cancellato. È in questa
condizione di tabula rasa che noi veniamo al mondo. Abbiamo dimenticato
tutta la storia, anche se rimane con noi il modello ineludibile e
necessario del nostro destino e anche se il daimon ricorda”. (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 68, 69.)
“Di norma, veniamo al mondo con la testa in avanti, come se ci
tuffassimo nello stagno dell’umanità. E nella testa c’è un punto molle,
attraverso il quale, secondo la tradizione del simbolismo del corpo,
l’anima del neonato continua a ricevere l’influsso delle sue origini. Il
lento processo di chiusura della fontanella, il suo indurirsi in un
cranio ermeticamente sigillato, segna la separazione da un invisibile
aldilà e il definitivo arrivo quaggiù. Ci vuole un po’ a discendere. E
un bel pezzo di vita prima di reggersi in piedi.” (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., p. 64.)
Il pensiero indiano esprime esattamente lo stesso concetto esposto da Platone e ribadito da Hillman:
“Lo jiva che si ritrova in una matrice umana si ricorda
[inizialmente] le circostanze delle sue vite precedenti, ricorda i
desideri, gli errori, le cattive azioni, il male che ha causato ad
altri. Si ripromette di non ricedere più negli stessi funesti errori,
causa dei tormenti che ha sofferto.
Egli nasce, la sua memoria si oscura gradatamente.
Allora, subendo l’effetto delle tendenze che vivono radicate in lui
per effetto dell’ignoranza che non ha potuto vincere, ricomincia ad
accumulare, senza discernimento le azioni buone e quelle cattive ed è
trascinato nella ruota (samsara) verso nuove morti e nuove rinascite”. (Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 114.)
Tutta la vita di ognuno di noi, dal concepimento alla morte, è dunque
frutto di una scelta effettuata e messa in pratica, anche se
dimenticata, con l’aiuto del nostro daimon, del nostro destino.
Ma il termine “destino” è solo uno dei due significati principali della parola daimon. L’altro significato fondamentale, come avevamo già accennato è quello di daimon come personificazione della forza che ci lega al nostro destino: ossia come genio, come demone o come angelo custode.
“La teoria della ghianda dice che io e voi e chiunque altro siamo
venuti al mondo con un’immagine che ci definisce. Ovvero, nel
linguaggio di Platone e di Plotino, ciascuno di noi incarna l’idea di se
stesso. La teoria, inoltre, attribuisce all’immagine innata,
un’intenzionalità angelica, o daimoniaca, come se fosse una scintilla di
coscienza; non solo, afferma che l’immagine ha a cuore il nostro
interesse perché ci ha scelti per il proprio.
L’idea che il daimon abbia a cuore il nostro interesse è
probabilmente l’aspetto della teoria più difficile da accettare. Che il
cuore abbia le sue ragioni, d’accordo; e anche l’esistenza di un
inconscio dotato di intenzionalità e l’idea che in quello che ci succede
svolga una parte il destino: tutto questo è accettabile, quasi banale.
Perché allora è così difficile immaginare che qualcuno o qualcosa
tenga a me, si interessi a quello che faccio, magari mi protegga o
addirittura mi mantenga in vita, indipendentemente, in una certa misura,
dalla mia volontà e delle mie azioni? Perché preferisco una polizza di
assicurazione agli invisibili garanti dell’esistenza? Perché non ci
vuole niente a morire. Un attimo di distrazione, e i progetti più
accurati di un Io forte giacciono riversi sul marciapiedi.
Quotidianamente qualcuno o qualcosa mi salva la vita, impedendomi di
cadere per le scale, di inciampare mentre cammino, di ricevere una
tegola sulla testa. A ciò che ci salvaguarda diamo il nome di
istinto, autoconservazione, sesto senso, coscienza subliminale (tutte
cose invisibili eppure presenti). Nei tempi antichi, ciò che con tanta
efficacia mi sapeva proteggere era uno spirito custode e io mi guardavo
bene di mancargli di rispetto.
Nonostante questa protezione invisibile, noi preferiamo immaginarci
gettati nudi nel mondo, vulnerabili e completamente soli. È più facile
credere nella favola di uno sviluppo autonomo, eroico, che in quella di
una provvidenza che ci guida, che ci ama, che ci trova necessari per ciò
che abbiamo da offrire, che accorre in nostro aiuto nella disgrazia, a
volte proprio all’ultimo momento. Ebbene, io voglio affermare la sua
esistenza come semplice dato dell’esperienza comune. Perché non
possiamo far rientrare nell’ambito della psicologia ciò che un tempo si
chiamava provvidenza, ovvero la presenza invisibile che ci sorveglia e
veglia su di noi?”. (James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 27-29.)
Di presenze invisibili che ci sorvegliano, vegliano su di noi e
controllano che svolgiamo il compito per il quale siamo vivi, sono piene
anche le filosofie e le mitologie orientali.
In Cina, nel già citato I King, le previsioni oracolari avvenivano proprio grazie all’intervento di queste presenze invisibili:
“Secondo l’antica tradizione sono degli “agenti spirituali” operanti
in modo misterioso quelli che fanno dare una risposta sensata agli steli
di millefoglie. Queste potenze formano, quasi, l’anima vivente del
Libro”. (Carl Gustav Jung, Prefazione alla traduzione inglese dell’I King, contenuto in I King, op. cit., p.15.)
Nell’induismo vedico, si credeva che lo Jiva, il principio spirituale individuale, avesse con sé un compagno, un “doppio astrale”:
“Lo Jiva, sembra aver trascinato con sé, separandosi dal corpo, un compagno che è il corpo sottile del defunto.
Potremmo chiamare questo compagno un “doppio”.
All’epoca dei Veda non soltanto gli indiani delle classi popolari, ma
gli intellettuali, credevano all’esistenza di un “doppio” unito al
corpo. La natura di questo non pareva però ben definita. A volte lo si
confondeva con il soffio vitale che si manifestava con il respiro, a
volte con il principio pensante della coscienza”. (Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 109.)
Sicuramente più esplicito in proposito è il buddhismo tibetano, che afferma che non c’è un solo “daimon”
che accompagna l’uomo nel suo viaggio terreno, bensì due. Essi si
manifestano apertamente dopo il trapasso, quando il defunto deve
affrontare il giudizio del re della morte. In quel momento,
“la divinità delle buone azioni, nata insieme a te, verrà e metterà
da parte le azioni buone che hai fatto e le segnerà con sassolini
bianchi, e il demonio nato insieme con te verrà e metterà da parte i
peccati e li segnerà con sassolini neri”. (Il libro tibetano dei morti, Bussolengo (VR), 1994, Demetra, p. 72.)
Il Libro tibetano dei morti porta, secondo lo stile dell’epoca, esempi molto cruenti. Di fronte alla divinità della morte,
“colui che rappresenta la divinità delle azioni positive e che
insieme a noi nasce indossi una maschera bianca di sereno aspetto e
vesti di lana candida. Rechi inoltre un vassoio ricolmo di sassolini
bianchi.
Colui che rappresenta il demone delle azioni negative e che assieme a
noi nasce abbia una maschera nera, un abito nero e un vassoio ricolmo
di sassolini neri.
Il demonio delle azioni negative che nasce con l’uomo lo segue,
mentre la divinità innata offre umilmente ai compagni negativi una
sciarpa bianca ma, per quanto insista nel pregare , non ottiene
nulla. Anzi, quelli imprecando portano il defunto al cospetto del re il
quale chiede: “Tu, uomo nero, chi sei? Vieni da dove? Hai forse
offeso le candide azioni positive? Sei riuscito a evitare i neri
peccati? ”. Allora il peccatore risponde: “Ho avuto un corpo
umano ma ben poca fortuna, abiti e alimenti pessimi, molti figli e molte
donne che non ho potuto sfamare. Ho privato della vita numerose
creature. Avevo da mangiare soltanto calda carne. Se avevo sete
bevevo acqua e sangue. Sulla terra molte buone e pie guide mi hanno
parlato della compensazione che fa seguito al peccato e dei vantaggi
della virtù. Ma non ho badato loro. Tutti mi dicevano: ‘Non peccare
così, un giorno colei che chiamiamo morte verrà e scenderai nell’inferno’.
Ascoltandoli, fra me e me pensavo: ‘Chi sa se davvero l’inferno
esista come essi dicono? Eppoi, chi mai è tornato dall’inferno per
raccontarlo?’.
Ridevo così. E pensando che non esistesse l’inferno ho commesso numerosi peccati.
Mi hanno guidato la non comprensione e l’ignoranza. Ora prego, tutti
voi di non punirmi. Quando ero nel mondo degli uomini se avessi saputo
come in realtà stanno le cose non avrei peccato. Ora rinnego la mia
mente malvagia. È detto che tu sei il Signore della Legge: ebbene, abbi
pietà di me, sii per me sostegno e guida. Lasciami ancora nel
mondo degli uomini. Non commetterò più peccati, solo azioni positive. Ti
prego”.
A ciò la divinità delle azioni positive, che con noi nasce, porgendo
una sciarpa bianca chiederà: “Signore della Legge, quest’intoccabile di
infima casta non ha conosciuto né bene né male, e ciò a causa
dell’annebbiamento dell’ignoranza. Ha dunque commesso numerosi peccati.
Non sapeva e non capiva. Non pronunciare a suo carico un penoso
giudizio. Ha anche compiuto qualche azione positiva. Quale segno ecco sei sassolini bianchi. Ti prego dunque di soffermarti su questa
azione positiva e su quante altre ne abbia fatte, o re della Legge”.
Interviene però il demone nero: “Ah, candida divinità, hai dunque
solo questo da dire? Non provi vergogna a portare un vaso vuoto?
Quest’intoccabile da vivo s’affidò solo al peccato: ha offeso ogni
bene; ha ucciso ogni creatura che gli capitava di vedere, e si sfamava
con carne calda. Si dissetava con il sangue caldo, e parlando usava
parole negative. Uccideva i caprioli che mai gli avevano fatto del male,
i pacifici pesci, colpiva i mendicanti mansueti. Offendeva le buone e
pie guide, diede fuoco ai templi, avvelenò i laghi; incendiò le foreste
sui monti, percosse padre e madre e ne disperse i resti. Osserva
questo mucchio di sassi neri. Uccidendo provavi gioia; poi,
mangiando le vittime, ti compiacevi. Ti compiaci anche ora? A che serve
sciorinare parole? Hai desiderato carpire la vita a milioni di creature.
Ora devi scontare la pena per ogni azione malvagia che hai compiuto.
Quanto ingiusto sarebbe se ora tu non provassi queste pene. Il re
della Legge, per quanto grande, nulla può fare per impedire l’esito del
tuo peccare. Questi sassolini più grandi indicano che hai dato alle
fiamme alcuni templi, questi più piccoli che hai ucciso alcune cimici.
Osserva quanti sassi! Preparati ad andare lungo questa strada nera ed
erta come un passo minaccioso”. (Il libro tibetano dei morti, op. cit., pp. 102-107.)
Guidata da queste presenze invisibili, l’anima si appresta, dopo ogni
morte, a seguire il nuovo destino indicatole dalla legge del karma, accompagnata dal suo daimon.
E tutto si ripeterà di vita in vita, di trapasso in trapasso, finché
l’anima non si renderà conto che tutto – i demoni bianchi e neri, il
signore della morte, il suo stesso sé – non è che un’illusione:
“Sappi che ogni forma che puoi contemplare nello stato di Bar-do è un’immagine irreale di sogno da te costruita e che tu proietti, senza riconoscerla come una tua creazione, spaventandotene.
Lo specchio in cui ti sembra di vedere Shindje (Il Signore di morti) , è la tua memoria che ricorda la catena delle tue azioni passate e che giudica secondo i concetti che tu hai formato.
Sei tu che, per le tendenze che sono in te, pronuncerai il tuo giudizio e ti assegnerai la tua ri-nascita.
Nessun terribile Dio ti ci spingerà.
Ti ci avvicinerai da solo.
Le forme degli esseri spaventosi che vedi impadronirsi di te e
spingerti verso la tua nuova nascita sono quelle di cui tu stesso
rivesti le forze delle tue tendenze interiori.
Sappilo ancora.
Al di fuori delle tue allucinazioni, non esistono né dei, né demoni, né il vincitore della Morte.
Comprendilo e sii liberato”. ( Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 61.)
Fonte: http://www.psicologi-italia.it/psicologia/varie/1287/daimon-e-karma.html
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Grimm G. (1988): Gli insegnamenti del Buddha, Roma: Ed. Mediterranee, 1994;
Hillman J. (1996): Il codice dell’anima, tr. it. Milano: Adelphi, 1997;
Il libro tibetano dei morti, tr. it. Bussolengo (VR): Demetra, 1994;
Jung C. G. (1948), Prefazione alla traduzione inglese dell’I King, contenuto in I King, Roma: Astrolabio, 1950;
Lama Yesce (1982): L’arte buddhista di saper morire, tr. it. Pomaia (PI): Chiara Luce Edizioni, 1992;
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